GLI ITINERARI DI FUGA VERSO LA SALVEZZA
(a cura di Giovanni Petrotta ed Emilio Rossi)
Questi sono i principali sentieri attraverso i quali trovarono scampo nella vicina Svizzera centinaia di Ebrei e di perseguitati politici dal regime nazifascista. Ecco le memorie di chi dovette percorrerli o nel ruolo di guida o di fuggitivo
TESTIMONIANZE rilasciate nel 1975 da alcuni protagonisti della Resistenza nel Luinese e pubblicate su TRAVALIA, rivista edita dalla Biblioteca Civica di Luino.
Antonio De Vittori (guida di frontiera)

“Passai dal Pianazzo ma non dal tombinone come di solito. Una volta con Mongodi e Badi avevamo per quella via portato un’intera famiglia di Ebrei: padre - medico, madre, figlio e domestica, bensì al tombino a nord di Pianazzo, un passaggio più arduo ma non tanto sfruttato e quindi meno pericoloso dell’altro. Questa strada mi era stata insegnata da Odone, il giovane che aiutò Rosetta Garibaldi quando questa s’avventurò da sola con un gruppo di prigionieri verso la frontiera. Con Rosetta eravamo andati assieme qualche giorno dopo a guidare un nuovo gruppo, mentre Mongodi e Badi erano trattenuti in Svizzera. Essa procedeva avanti a tutti, fingendo di leggere un libro (si doveva forzatamente agire di giorno): seguimmo la stessa strada da lei percorsa sino al Cesco, ove trovammo l’Odone che ci guidò lungo il cammino a lui noto. Delle sue indicazioni feci tesoro in seguito.
L’INIZIO DEL SENTIERO DELLA SALVEZZA



Rosetta Garibaldi, figlia di Duilio e di Maria Badi. Oltre all’azione svolta con tutta la sua famiglia a favore degli esuli, ospitati alla Gera, diede poi aiuto a formazioni partigiane, una delle quali fu sorpresa nell’ottobre ‘44 proprio in quel luogo. Sofferse a cagione di ciò un lungo periodo di carcerazione assieme alla madre. …Quella notte (dicembre ’43) arrivò un altro gruppo: non si era fatto in tempo ad avvisare l’ingegner Bacciagaluppi. Era composto da 5 persone che furono nascoste nella trincea del sasso, una delle tante opere militari disseminate sulle nostre colline prima della guerra 15/18. Non sapevamo che fare. Due delle guide erano state trattenute in Svizzera e le altre non osavano venire alla Gera: temevano che i tedeschi ritornassero il giorno dopo. Avevo allora 16 anni: mia madre consentì alfine che tentassi io di accompagnare gli alleati oltre confine. Mi avviai per via dei Lori e, con incosciente coraggio, portai la comitiva ad attraversare la Tresa alla passerella poco sotto la diga. Nei boschi del Cattél fummo più tranquilli e potemmo arrivare sino a Longhirolo; qui finivano le mie nozioni sulla strada per il confine. Lasciati i miei compagni nel bosco, decisi disperata di rivolgermi alla signora Bonalumi che conoscevo e alla quale apersi il cuore, chiedendo consiglio. Quella buona donna mi istradò verso il Cesco ove, mi disse, avrei certamente trovato aiuto. Così avvenne: domandai la strada al primo venuto che non esitò a farmi accompagnare dal figlio Mario Odone sino al confine. Avevamo appena lasciato Longhirolo quando vi transitò una pattuglia tedesca.



Secondo Sassi, fabbro. Fuochista nelle ferrovie, dovette lasciare il posto già nel 1919, per motivi politici. Fu sindaco della Liberazione a Germignaga A Biviglione l’organizzazione aveva raggiunto una notevole perfezione tecnica. Per azione di alcuni abitanti del luogo, veniva tesa nottetempo una fune fra le due parti del fiume Tresa e la gente veniva fatta passare per teleferica mediante un seggiolino di ferro e un gancio ch’io stesso avevo fabbricato. Il luogo del passaggio era presso la galleria della strada ferrata Luino - Ponte Tresa che era sorvegliato. Per tendere la fune era naturalmente necessario attraversare il fiume a guado, cosa difficile quando esso era in piena. Con questa teleferica entrò in Svizzera per esempio Violetta Meriti, vedova del ferroviere Gozzoli, a lungo perseguitata dai fascisti; abitava a Luino all’Isola dei Fiori e, durante una perquisizione, le gettarono dalla finestra, sfasciandolo, il piccolo telaio meccanico con cui lavorava in casa.



Sul ponte di ferro che attraversa il fiume Tresa, Peppino Candiani di Milano, in un’operazione di salvataggio ed espatrio di sedici giovani e del disperso lituano Marcovic, fu colto di sorpresa e ucciso da una pattuglia di fascisti nella notte tra il 5 e il 6 maggio del 1944. Faceva parte del gruppo di cattolici che dette vita, presso il Collegio San Carlo, alla Organizzazione Soccorsi Cattolici Antifascisti Ricercati (OSCAR), con le principali sedi operative in Crescenzago e a Varese, nella zona di confine con la Svizzera. Aveva diciannove anni!
IL PONTE DI FERRO SUL FIUME TRESA DOVE FU UCCISO IL GIOVANE ANTIFASCISTA PEPPINO CANDIANI LA VECCHIA STRADA CHE SCENDE DA BIVIGLIONE VERSO IL TRESA L’INTENTO DELL’ANPI È QUELLO DI TRASFORMARE QUESTI PERCORSI IN SENTIERI DELLA MEMORIA E DELLA RESISTENZA, SEGNALATI CON UNA DETTAGLIATA CARTELLONISTICA IN GRADO DI FAR RIVIVERE I PENSIERI E LE EMOZIONI DI COLORO CHE SONO STATI DRAMMATICAMENTE COSTRETTI A TRANSITARVI IN CERCA DI UN’INCERTA SALVEZZA OLTRE FRONTIERA.
